Testimonianze dei profughi del Carso: Rosalia Devetak Juren

A Bruck c’era un grande campo, già costruito. Su in alto c’era un cimitero ed alcuni erano già sotterrati, probabilmente c’era anche un ospedale. […]

Eravamo soltanto noi sloveni e c’erano alcuni tirolesi. C’era inoltre un secondo campo per gli italiani. Qua a Bruck eravamo soltanto noi sloveni. Avevamo la nostra chiesa, la nostra messa così bella, ogni giorno. Poi da lì andavamo in fabbrica, in città. Noi eravamo in un campo della città. Avevamo anche i nostri uffici, dove la nostra gente poteva reclamare. Ognuno aveva una baracca, ogni famiglia una per sé. Poi c’erano anche delle baracche più piccole. Andavamo a prendere il cibo dai soldati, in fila. Dormivamo sul fieno. […] Avevamo la chiesa e la scuola, anche la “casa di Maria”, dove ci radunavamo dopo la messa. Del resto cosa altro si poteva fare, eravamo in tanti. […]

Poi andammo in Stiria, in campagna. Naturalmente, quando lavoravamo in fabbrica, risparmiavamo dei soldi. Lavoravamo anche per i contadini. Noi ci trovavamo male. I bambini dicevano: “Profugo italiano, zingara italiana”. Non era necessario chiedere l’elemosina, ma alcune andavano a farlo. A me non piaceva, io non andavo, non ero abituata, mai. Alcune andavano e si vedevano chiudere la porta davanti al naso: “Italiani, profughi, zingari”, ci dicevano di tutto.