Ritorno a Gorizia
Nei primi giorni dopo il nostro ritorno, per noi reduci dal regno della fame, quando ancora non funzionavano i fornelli nelle cucine, il Municipio aveva giudiziosamente provveduto a distribuire gratis nella palestra dell’Unione Ginnastica una quotidiana minestra d’orzo. E con un pentolino s’andava anche noi, come soldati al rancio, muniti di cucchiaio, a prelevare la provvidenziale minestra che dopo anni di privazioni, era o ci sembrava una squisita leccornia.
Ci fu anche, come accade in momenti storici eccezionali, qualche nota stonata. Arrivati a causa della mia malattia con un mese di ritardo, eravamo fieri di portare all’occhiello una vistosa coccarda tricolore che mia sorella aveva amorosamente cucita prima che partissimo da Graz. Certa gente ci indicava a dito dicendo: “Oh adesso podè metter via le cocarde, dopo i primi giorni no le porta più nissun”. Infatti non se ne vedevano più. Era uno schiaffo al nostro amore.
Oltre ai profughi arrivarono anche numerose persone delle vecchie provincie cercando di avviare i traffici con una città che aveva bisogno di tutto. Ma fra costoro c’erano anche i furbi che importavano fiaschi di vino. Il fiasco italiano era per noi una novità e ci confermava la gioia di essere in Italia. I furbi ne approfittavano per vendere il Chianti di un pallido e romantico color rosa, metà vino e metà acqua. Finché anche noi capimmo l’antifona…
Il grosso problema era quello di trovare un tetto. Molte case erano senza padrone e, in attesa che questi comparisse, potevano essere occupate dal primo arrivato. Ognuno si arrangiava senza chiedere il permesso a nessuno.
Noi, nell’impossibilità di trovare posto nella vecchia abitazione di Via Cipressi, per più di metà crollata, ci allogammo in una casa di Via Luigia, al pianterreno, avendo per tetto i pavimenti del primo piano che ci potevano riparare dalla pioggia.
L’inverno era alle porte. Sofronio e io andavamo in giro fra le macerie in cerca di legna da ardere, e portavamo a casa o una trave da segare a pezzi o l’imposta di una finestra scardinata. E si andava in cerca non solo di legna e di viveri, ma anche, e soprattutto di lavoro.
Mentre io ero costretto ad aspettare che si riaprissero le scuole per riavere il mio posto d’insegnante al ginnasio, Sofronio si buttò a capofitto nel giornalismo.
(Ervino Pocar. Ritorno a Gorizia, in Ervino Pocar. Mio fratello Sofronio. Gorizia, Cassa di Risparmio, 1976, p. 164-169)