Relazione del commissario di polizia Winkler al ministero dell’Interno a Vienna (6-8 agosto 1916)
Ci risposero che presso Gorizia si combatteva bensì aspramente; ma che nulla dava motivo a temere e che quindi il nostro ritorno non era assolutamente necessario. Partimmo nel domani. Giunti a Valvociana non vi trovammo una carrozza municipale che avrebbe dovuto attenderci là per trasportarci in città, perciò decidemmo di metterci in comunicazione telefonica col Commissario governativo. Ma alla stazione dov’era stata installata la centrale telefonica, ci dissero che le autorità civili e militari si erano ritirate da Gorizia e che non si sapeva ove fossero andate. Benché ne fossi stato sconsigliato, decisi di recarmi subito a Gorizia e pregai perciò l’ufficiale che si recava in città di accogliermi nella sua carrozza. Poiché la strada che conduceva a Gorizia attraverso San Pietro si trovava sotto il fuoco di sbarramento italiano, dovemmo cercare di raggiungere la città attraverso Aisovizza. Anche i ponti di questa strada venivano continuamente bombardati. Una pallottola di shrapnell colpì il cavallo sinistro, e lo ferì per fortuna solo leggermente alla gamba destra.
Nella trattoria “Comel” che si trovava a destra della strada e che appartiene al Comune di Gorizia, trovammo un gran numero di persone fuggite dalla città e tra questi il Vicario del Duomo Mosettig, la marchesa Paolucci, la signorina de Hentochl, il farmacista Albanese e molti altri. Essi mi raccontarono che la città bruciava in molte parti. Gorizia era avvolta da dense nuvole di fumo provocate dai grandi incendi che imperversavano nella città, e nei dintorni immediati di essa. Del Podgora ed Oslavia non si vedeva nulla, perché erano avvolte da un intenso fuoco tambureggiante. Lo strepito della battaglia superava tutto quello che avevo udito fino allora durante le varie offensive italiane.
[…]
Attraverso i portoni chiusi a chiave, ma muniti d’invetriata si poteva gettare uno sguardo nei cortili interni. Dall’alto strato di macerie ce li coprivano, potevasi comprendere che quelle facciate delle case esposte maggiormente al bombardamento avevano sofferto molto.
Sul Corso una desolazione! Rami strappati dagli alberi, comignoli e parti interne di tetto, frammisti a vetri, coprivano le strade. Non v’era anima viva! Vidi invece, dietro le finestre di alcune abitazioni, a piano terra, delle facce atterrite. In fondo al Corso bruciava una casa ed altre undici ardevano in diversi punti della città.
In via Vetturini stavano seduti sul marciapiedi ed appoggiati al muro di una casa alcuni soldati che sembravano dormire dalla fatica. Compresi in seguito che erano morti.
[…]
[Ordinai] che tutte le carrozze ed i carri disponibili del Comune siano tenuti pronti nel cortile e i cavalli bardati nelle scuderie [suggerendo alle persone che chiedono consiglio] di abbandonar la città in tutta calma o di prepararsi tutti gli effetti necessari e trasportabili per il caso in cui fosse stata necessaria una fuga. […]
Alle 4 del mattino del giorno 8 agosto perdurava ancora il fuoco tambureggiante sulle alture al di là dell’Isonzo, e il bombardamento sulla città. Ad ogni istante alla stazione di infermeria, stabilita nell’atrio nel municipio, venivano portati i feriti e tra essi molti soldati, che venivano medicati alla meglio.
[…]
Ben presto [dopo la diffusione dell’ordine di sgombero della popolazione] da tutte le parti, incurante dell’incessante fuoco di artiglieria che bombardava tutti gli accessi dell’Isonzo, giunse al Municipio gran quantità di gente, la quale voleva che l’ordine di sgombro fosse confermato da una autorità più competente e sul posto. Fra gli altri venne anche il segretario comunale dott. Dante Vecchi e poiché la sua strana indecisione mi fece balenare qualche sospetto, gli feci noto con voce aspra ed autoritaria che egli doveva abbandonare la città assieme a tutti gli altri organi cittadini dell’amministrazione. Egli promise anche di farlo, ma non c’è dubbio che sia rimasto a Gorizia intenzionalmente. Vidi ancora la scrivana municipale Podgornick, ma non credetti necessario doverle parlare. Seppi poi che essa assieme ad altre fanciulle accolse dinanzi al municipio con mazzi e fiori legati da tricolore italiano e vestita da festa, le truppe italiane che entravano in città.
Moltre altre persone rimasero intenzionalmente in Gorizia.
Frattanto fu portata in municipio una fanciulla di 17 anni la quale aveva avuto la coscia destra completamente aperta fino all’osso da una granata, in una casa distante circa cinquanta passi dal Municipio, e nella quale essa si trovava. Fu curata e medicata, ma si dovette poi abbandonarla poiché non c’era più a disposizione nessun mezzo di trasporto.
Lo sgombero procedeva alacremente.
Subito dopo le quattro mi fu annunziato da un ingegnere appartenente alla milizia territoriale che le truppe italiane avevano passato l’Isonzo e marciavano verso la città. Delle truppe austriache in ritirata non si vedeva ancora nulla. Per evitare spiacevoli sorprese ordinai che i cavalli fossero attaccati. Ma mentre i miei ordini venivano eseguiti, caddero in prossimità del Municipio alcuni colpi di fucile, prima uno, poi molti altri. Tutti li udirono. Stimai che la distanza fosse in linea retta circa 200 metri. Alcuni erano del parere che fossero caduti sul Corso.
Mentre stavamo così discutendo, si udì proveniente da via Alvarez un fortissimo baccano. Tutti corsero al portone del palazzo ed allora vedemmo una batteria austriaca che era stata piazzata sul Corso, voltare l’angolo della strada e venire di gran carriera verso di noi percorrendo via Alvarez.
Subito dietro a questa seguiva una compagnia di fanteria a passo di corsa. Alcune persone – e fra queste anch’io _ corremmo incontro fino alla Posta. Ma già da lontano il tenente comandante della compagnia ci gridò: “Indietro! indietro! Gli italiani sono presso la chiesa del S. Cuore”.
Contemporaneamente ebbi notizia che le truppe austriache erano venute alle mani con alcune pattuglie italiane presso il “Caffè Corso”. E difatti la compagnia sopra citata aveva ricevuto l’incarico di fermarle.
Era giunto il momento di agire presto. Tutti prendevano d’assalto i carri.
Passarono però ancora alcuni minuti prima che questi, caricati di uomini e di cose, potessero partire.
L’ultimo sguardo che gettai attraverso il portone verso via Alvarez mi fece apparire – per quanto le dense nuvole di fumo e di polvere lo permettessero – la scena della battaglia che avveniva in fondo alla strada.
I carri avanzando con grande precauzione e lentissimamente attraverso il parco del municipio raggiunsero la via Rabatta. Tremavo al pensiero di dovermi incontrare in questa via con qualche plotone di cavalleria italiana che vi avrebbe potuto già trovarsi. Dal volto di tutti traspariva il medesimo timore, ma nessuno osava parlare. Per fortuna la via era libera.
Da via Rabatta proseguimmo a passo d’uomo attraversando mucchi di macerie e buchi di granate fino alla piazza Sant’Antonio e di lì raggiungemmo la strada di Valdirose. Per fortuna il fuoco di sbarramento era cessato, tanto sulla città quanto sulle vie di accesso ad essa, evidentemente perché l’artiglieria italiana temeva di colpire anche le proprie truppe che si trovavano ormai in Gorizia. In tutta la strada si muoveva una lunga catena di fuggiaschi che cercavano di raggiungere la Valdirose. Presso il castello di Liebenwald mi venne incontro un tenente che conoscevo. Apparteneva ad un reparto di lancia mine ed era accompagnato da un gruppo di soldati dello stesso reparto. Passando a cavallo vicino a me, mi gridò di essere stato comandato di far saltare nuovamente il ponte di Lucinico, perché il primo tentativo non era riuscito. “Oggi vado a guadagnarmi l’ordine della Corona Ferrea!” mi gridò. Ma un quarto d’ora dopo cadeva nella mischia in via Alvarez.
L’ultimo sguardo che gettai verso Gorizia mi fece vedere la città avvolta da una densa nube di fumo: in quel momento bruciava in quindici punti differenti.
(Ampi brani della relazione del commissario di polizia barone Winkler al Ministero dell’Interno a Vienna sono contenuti in La guerra e il Friuli)