L’odissea dei regnicoli di Gorizia

Dal maestro Alfredo Luccarini [sic], professore del Conservatorio di Trieste, giunto a Milano martedì scorso coi profughi della regione di Gorizia, riceviamo questa lettera.

Profugo anch’io da Gorizia, dopo un breve internamento e due viaggi disastrosi sono arrivato a Milano con due mie figlie insieme con circa 1400 espulsi dal Goriziano.

Andati a trovare diverse famiglie di conoscenti, spesso dopo aver narrato le nostre vicende ci udivamo rispondere:

– Dunque era proprio vero, non erano esagerazioni di giornali quelle che leggevamo!

Mi è venuto il sospetto che tanti fatti veri narrati dai giornali, siano ritenuti da una parte del pubblico come esagerazioni di animi inaspriti. Siccome invece la realtà è forse ancora peggiore, mi permetto di inviarle la narrazione di quello che vidi ed udii io stesso.

Nel giugno, quando la situazione s’intorbidiva seriamente, io non sono fuggito in Italia perché tutte le autorità politiche di Gorizia mi avevano formalmente garantito che agli uomini sopra i 50 anni, alle donne e ai fanciulli non sarebbe stato torto un capello.

– Non siamo barbari, che diamine! resti pur tranquillo fra noi; mi ripetevano tutti.

Però, ad onta delle formali assicurazioni il 29 maggio ci fu recapitato in casa l’avviso di internamento per me, coll’ingiunzione di presentarmi la sera stessa in Polizia. Decisi di nascondermi, e d’accordo con le figlie tutto riuscì così bene, che dopo varie perquisizioni ed interrogatori la polizia credette che io fossi riuscito a fuggire a Trieste e di là fossi rimpatriato per la Svizzera. Mi recavo di piena notte a trovare le mie figlie, a prender viveri e notizie, e così vivemmo indisturbati dalla polizia, fra mille ansie e le pene della carestia e del bombardamento fino al 9 luglio.

In questo frattempo, al barone Winkler incolpato di troppa mitezza, era stato sostituito quale commissario di polizia il famigerato Casapiccola, il quale incominciò subito una fierissima persecuzione contro tutti gli italiani di Gorizia.

Lo sfratto

Il 9 luglio alle mie figlie come a tutti gli italiani regnicoli di Gorizia fu intimato di presentarsi alle scuole tedesche, luogo di concentrazione per quelli destinati all’internamento. Esse poterono, dopo molte preghiere, ottenere il permesso di rimpatriare a proprie spese per la Svizzera; ma era una falsa concessione. La domenica, 11 luglio esse partivano per Lubiana, mentre io restavo solo, nascosto ed alla mercè di una serva. Non so se questa si sia confidata con persona che poi mi denunziò, oppure se, abilmente interrogata, abbia tradito il segreto; il fatto è che alle 4 pom. del lunedì la mia casa fu invasa dalla polizia, perquisita per due ore ed io finalmente scoperto, arrestato e condotto fra le baionette alla sede di Polizia, sottoposto ad un penoso interrogatorio, minacciato di prigione, di processo come sospetto di spionaggio; finalmente, nulla essendo risultato a mio carico, fui semplicemente condannato all’internamento.

Il commissario nel congedarmi mi disse con ironia:

– Dovaria tenelo in pregion [sic], ma ghe faremo grazia e lo manderemo un poco in villeggiatura a Leibnitz; di là forse lo spediremo nella sua cara Italia a far la cura della polenta.

Al posto di concentramento già zeppo di regnicoli di ogni età, non potei ottenere neppure un bicchier d’acqua e passai la notte su di una panca, non volendo sdraiarmi sul nudo pavimento di mattoni. In quella stanza sopra una coperta era morto la notte prima, di crepacuore e di disagio, un povero vecchio di 65 anni senza il soccorso di nessun medico.

Venuta la mattina, nonostante preghiere e promesse non mi fu neppur concesso di mandare a dire alla mia domestica che mi portasse qualche indumento indispensabile. Alle nove fu distribuito il rancio per tutta la giornata: una semplice gamella di minestra, e tanto scarsa che più di ottanta persone, me compreso, restammo senza: molte donne erano disperate per i loro bambini che gemevano di fame.

Alle 10 si partì tutti in massa, fra due ali di popolo, scortati da molti soldati colla baionetta in canna e molti poliziotti in borghese; mentre si usciva, la mia serva potè consegnarmi un sacco da viaggio con biancheria, ma non potei dirle neppure una parola, chè subito un poliziotto la scacciò con minacce, mi strappò il sacco e me lo restituì dopo una visita minuziosa.

Il supplizio della sete

Bisognava andare a prendere il treno alla stazione più vicina, S. Pietro. Sotto un sole accecante, soffocati da nuvole di polvere, per una strada totalmente ingombra di truppe, di carriaggi, di automobili, si dovettero percorrere circa quattro chilometri, e la maggior parte della carovana si componeva di vecchi, donne e fanciulli.

A metà strada, la madre del mio collega Bianchi, maestro della banda di Gorizia, che, vecchia di 75 anni, ammalata, era rimasta a Gorizia con la cognata, presa da soffocamento e benché sorretta continuamente, cadde sfinita sul ciglio della strada. Alle mie preghiere, e constatando coi propri occhi il pericolo di una catastrofe, il sergente che ci scortava lasciò che la povera signora fosse caricata su di un carro di buoi che passava e il cui proprietario volle quattro corone di mancia.

Arrivati a S. Pietro avemmo l’immenso sollievo di poter bere e rinfrescarci alla fontana della stazione. Poi fummo fatti salire alla rinfusa e ben stipati su carri da bestiame; su ogni carro salirono due soldati armati e si partì.

Il viaggio fino a Leibnitz durò ininterrotto e lentissimo fino alle due pomeridiane dell’indomani. In quelle 26 ore ci vennero distribuiti due soli caffè neri, uno la sera del martedì ed uno la mattina dopo: caffè per modo di dire, poiché si trattava di un decotto assai peggiore della cicoria e addolcito con un po’ di miele. Nelle stazioni dove era proibitissimo scendere, gli spacci rifiutarono sdegnosamente di venderci la minima cosa. Fino a S. Pietro del Carso i soldati della scorta che erano slavi, furono umanissimi con noi e nelle lunghe soste in piena campagna ci lasciavano scendere a provvederci di acqua. Dopo cambiò scorta, i nuovi soldati tedeschi dell’alto Tirolo furono durissimi, inesorabili e dalla mezzanotte fino all’arrivo, per più di dodici ore, non fu più concessa una goccia di acqua, ci fu proibito di scendere per ogni altro motivo: e guai a insistere o protestare.

Una vecchia più che settuagenaria, la signora Stella, si ebbe un calcio nel piede da un soldato, e giunse poi a Milano che non poteva più camminare; una donna che gridava e voleva acqua per i figli, si prese un colpo di baionetta nella testa che le produsse una laceratura lunga più di sette centimetri.

Mi ricorderò sempre con fremiti di sdegno e di pietà i singhiozzi e le grida delle madri che invocavano una goccia d’acqua per i bambini gementi dalla sete: le preghiere di donne, signorine che reclamavano un solo istante per scendere dal treno fermo delle ore in piena campagna; ho sempre davanti agli occhi la figlia di un notissimo commerciante di Gorizia, che fra le braccia della madre, piangendo, si contorceva con spasimi atroci, mentre noi tutti del vagone si supplicava invano i due soldati di scorta, poi il sergente, che la lasciassero scendere un istante: e il treno si fermò più di mezz’ora! E quante scene simili e peggiori non succedevano negli altri trenta carri dove le donne e i fanciulli erano in maggior numero che nel nostro?

Arrivati a Leibnitz si ebbe finalmente un poco di riposo e la sera ci fu distribuita una gamella di minestra: il primo pasto dopo 36 ore. Colà ritrovai con sorpresa e gioia le mie figlie che credevo in viaggio verso l’Italia. Esse mi narrarono che la generosa concessione del famigerato Casapiccola si era ridotta ad una burla crudele, poiché appena giunte a Lubiana erano state arrestate per mandato della polizia di Gorizia, che aveva dato l’ordine di internarle a Leibnitz.

A Leibnitz la vita è sopportabile per chi vi passa pochi giorni, ed ha denaro per migliorare il rancio governativo: i soliti due caffè mattina e sera, un pezzo di pane immangiabile, ed una cattiva minestra a mezzogiorno. I più privilegiati dormono su di un saccone ed hanno due coperte, gli altri sulla paglia; i giacigli sono simili alle stalle dei maiali, e noi ce ne siamo fatti fare un disegno fedelissimo; tutte le capanne sono di legno.

Finché durerà la buona stagione e se non scoppiano epidemie, la vita sarà sopportabile per gli uomini, ma anche adesso è durissima per le donne e i fanciulli, crudele addirittura per le signore distinte come, p.e., la signora Venier moglie del prosindaco di Gorizia, ivi internata in punizione del patriottismo del marito riparato in Italia.

La fine dell’incubo

I goriziani arrivati il mercoledì dovevano ripartire sabato, ma per me ci era l’ordine della polizia di Gorizia di trattenermi. Tanto feci però con quelle autorità e specialmente col comandante militare, che finalmente il venerdì sera ottenni di partire anch’io. Sabato mattina, alle 4, vi fu la sveglia e cominciarono i saluti commoventi con i poveretti che restavano e che ci vedevano partire con sospiri d’invidia e con auguri di affetto. Dopo l’appello, sul viale di uscita, accaddero scene crudeli e strazianti, poiché quattro ragazzi di 15 anni, troppo robusti, furono fermati dal Commissario e trattenuti nel campo, mentre i genitori disperati, dovettero partire senza aver tempo di lasciar loro neppur gli indumenti personali.

Nel viaggio assai più lungo, salvo le comodità delle vetture, salvo un discreto rancio a Gratz e a Lubiana, si sono spesso rinnovate le scene del primo viaggio da Gorizia. Ho veduto io un soldato della scorta a San Michele sfoderare la baionetta contro una povera madre e ricacciarla a pugni nel vagone, perché voleva scendere e prendere dell’acqua alla fontana lì di fronte per i figli che gemevano chiedendo da bere.

Finalmente la mattina del lunedì, 19, arrivammo a Buchs in Isvizzera. Ci parve di rinascere, di risvegliarci da un incubo e di ritornare solo allora nel consorzio delle creature umane. Soltanto a Buchs io respirai liberamente poiché fino dalla mia partenza da Gorizia, temevo sempre che qualche nuova perquisizione a casa mia avesse fatto scoprire il mio diario e che qualche telegramma mi arrestasse per via.

Il trattamento ricevuto in Isvizzera fu ammirevole.

E finisco con questo episodio. Viaggiarono sempre con noi i signori Gavazza, agiati borghesi da molti anni residenti a Gorizia. Il marito è suddito italiano, la moglie è austriaca, nata a Vienna ed affezionatissima alla sua patria.

Giunti a Buchs, tutti eravamo commossi del trattamento che ci era usato: molte donne piangevano. Ma la signora Gavazza piangeva più di tutti, e non poteva mai calmarsi.

– Signora, perché piange così? – le chiesi.

– Cossa la vuol… dopo tutto quello che ho veduto e sofferto, questo trattamento mi fa male al cuore, mi fa vergognare della mia patria.

(Alfredo Lucarini. L’odissea dei profughi goriziani. Il racconto di un professore di musica, in “Il Corriere della sera” del 24 luglio 1915)