La notte di San Silvestro del 1915 nel campo di Mittergrabern
Mitter Grabern. Paesetto disperso tra colline e pianura. Diversi chilometri distante da Ober-Hollabrunn. Paese prettamente tedesco.
Nel pomeriggio di quel giorno il poeta Mario Zanetti mi aveva recitato con la sua voce dolce alcuni brani dei Colloqui di Guido Gozzano. Oggi le sue ossa fremono in suolo straniero, nell’attesa di venir portate in patria.
Quella sera si era fatto buio molto presto e tutti si ritiravano nella propria baracca. Genio Cociancig veniva narrando l’ultima avventura toccatagli con un bel pezzo di ragazza di cui non ricordo il nome oppure che aveva scorto il Wachtmeister e la Lisetta al bagno. Grudina filosofava con Collenz o col commissario Resen che sostituiva il medico. La Gasperazzo – la siora Marieta – s’intratteneva ancora un poco con la siora Chersovani, con la Castelreggio o con la de Polo. Ma poi un po’ alla volta s’era fatto deserto tutto il campo. Anche il dottor Lach s’era ritirato con la bella Ljùbitza nella baracchetta.
La nostra baracca era tutta addobbata. Il nostro reparto in bianco e verde con l’alabarda rossa di Trieste. Il reparto degli sloveni con i loro colori nazionali; quello dei cechi pure.
Avevamo comperato molto vino, perché il giorno dopo sarebbe incominciato l’anno che ci avrebbe portato la redenzione e la pace: come eravamo ingenui!
I canti incominciarono. Ma erano tristi da principio. Non tutti partecipavano alla festa. Poi venne Bacco a portar la spensieratezza. Marinata già mezzo ubriaco cantava: E noi che allegri siamo / beviam, beviam, beviamo…
Ci fu chi pronunciò dei discorsi. Mi pare Marcuzzi del “Piccolo” o il prof. Furlani, ora redattore dell’ “Era nuova”. Più tardi venne anche il dalmata Marincovig, il quale inneggiò alla libertà e a tante altre belle cose e quella sera finì in gattabuia – se ricordo bene.
Poi ancora canti. Canti marinareschi. Maria Maino, una giovane di Rovereto dagli occhi azzurri, che io ho sempre chiamato Nina (noi due ci volevamo anche un po’ di bene) cantava: E il remator / che si mette a cantare: / Meglio sfidar / le tempeste del mare, / che quelle dell’amor. / Voga e va…
Bruno Tosi suonava la chitarra. Ma anche questo simpatico amico è morto.
Si vedeva una pazza allegria negli occhi di tutti – il vecchio de Polo, sempre giovane – Cherin che sognava gli occhi della sua fidanzata – Pepputi Grinover di Cormons, che aveva fatto il cuoco tutto il pomeriggio – il garibaldino Giovanni Callegari, sempre nevrastenico – il maestro Fantuzzi che rideva con Romano Drioli, Toni Veronese, cavalier della Morte – Piero Poropat, che bestemmiava perché gli avevano gettato carbone nel caffè – Benvenuti che chiacchierava con Petronio – Covevar che diceva freddure senza far ridere – e tanti altri…
Venne la mezzanotte. Scoppiarono grida di evviva. Nel reparto terzo gridavano: zivio cui facevano eco i nazdar degli amici cechi. E come per incanto – perché lì eravamo fratelli – ci abbracciammo tutti.
Mi ricordo che Guido Vergna era molto triste: forse presagiva che avrebbe veduto Gorizia, ma non avrebbe goduta la redenzione.
Ritornò la malinconia e con essa la nostalgia. Ognuno pensava alla famiglia confinata o fuggiasca, ai figli e fratelli riparati nel regno, che forse combattevano, che forse erano caduti.
(Sofronio Pocarini. La sera di S. Silvestro del 1915. Ricordi d’internamento, in Ervino Pocar. Mio fratello Sofronio. Gorizia, Cassa di Risparmio, 1976, p. 47-49.)