Il racconto di mons. Castelliz (6 agosto 1916)
Gorizia, domenica 6 agosto, 13.30
Sto seduto solo nel piccolo refettorio, accanto alla cucina. Il segretario don Grusovin è andato stamane a dir la santa messa nella Villa Rosa e non è ancora tornato. Speriamo che non gli sia successo nulla. Non può tornare a casa a causa della terribile sparatoria. Anch’io sono andato alle 6.15 dalle Notre Dame. C’era tanta calma. Ma tutto cominciò all’inizio della santa messa. Terribile! Le giornate di novembre dell’anno scorso erano niente in confronto con la giornata odierna. Anche ieri l’altro, e più ancora ieri, qui era grave, molto grave, ma oggi è indescrivibilmente grave. Si è aperto l’inferno con tutti i suoi orrori. Ho proseguito a stento la santa messa. Tutto tremava: casa, finestre, porte. A destra e a sinistra si udiva la caduta delle granate, il sinistro sibilo e le esplosioni degli shrapnels, mentre sul Calvario regnava il terrore. Mina dopo mina, cinque, dieci in una volta, squarciavano il suolo e i ricoveri con un mugghio, un fragore e uno schianto che penetravano in tutte le ossa e i nervi.
Alle ore 7 entrarono in azione anche i nostri cannoni, dai più piccoli ai più grandi, e i mortai da 305, e ora chi lo voglia tenti d’immaginare il quadro. Chi non vi si è trovato, avrà un quadro molto ma molto lontano dalla realtà. Ho cercato invano paragoni, ho cercato invano qualcosa di simile; invano. Un terremoto? Dura solo alcuni secondi o qualche minuto. Un temporale? Una burrasca sul mare? Fenomeni ordinari. No, no, nella natura non si può trovare nulla di sì terribile. Il più grande degli orrori è l’uomo nella sua follia. Il Calvario, la Groina, il sabotino sono avvolti nel fumo. Le mine lavorano in modo tale che ci si deve porre la domanda se dopo questo lavoro esisterà ancora un monte Calvario. Nel frattempo le granate cadono in città come grandine, e come sono sinistre queste esplosioni nelle immediate vicinanze, questi crolli di muri, di balconi, di finestre!
Fino alle ore 10 sono rimasto nell’Istituto delle suore di Notre Dame. Uscire sotto la pioggia di granate e di pallottole era impossibile. Tuttavia alle 10, osai. Un soldato si offre per accompagnarmi. “Reverendo” mi disse “preferisco di gran lunga essere in trincea che qui in città…”. Nelle vie non c’è anima viva; tre persone fanno capolino da un portone; una ragazza con una bottiglia di latte attraversa la strada; questo è tutto. Voglio imboccare la via Stretta. “No, no, reverendo” mi grida qualcuno “vada piuttosto perla Piazza Grande nella via Stretta cadono le granate una dopo l’altra”. Obbedisco, e attraversando la piazza deserta giungo sotto il tetto [del palazzo arcivescovile]. Appena qui arrivato, vengo a sapere che due granate avevano squarciato il tetto della chiesa dei Gesuiti, che questa e quella casa erano state distrutte, che un’altra casa bruciava in via Municipio e un’altra ancora nei paraggi del Duomo.
Guardo in alto. Nere carte che bruciano o sono già bruciate stanno sospese o dondolano in giro nell’aria. Che cosa avviene oggi in verità? Che cosa succede con la città? Chi lo sa? Chi lo può dire? Tutti sono a casa, nelle cantine. Ognuno pensa solo a se stesso, facendo attenzione se il fracasso infernale sta per finire, per tirare un respiro di sollievo, per attingere ancora speranza nella vita. Invano. Le cose peggiorano sempre più. Alle 2 e ¼ del pomeriggio è peggio che al mattino. I nostri cannoni tacciono, tanto più urlano quelli italiani. La vecchia cappella dell’arcivescovo è colpita. Ogni momento si sente un rumore, come se un carro di sassi ruinasse dall’alto. Tutti gemono, tutti pregano. Stamane hanno suonato due volte insistentemente alle Notre Dame, e quando si è aperto il portone si rifugiarono nell’Istituto molte persone. Donne, ragazze, bambini corsero direttamente nella cappella a pregare in ginocchio e ad alta voce per la liberazione. Una scena che non dimenticherò mai.
E la desolatio abominationis perdura. In questo momento mi si dice che una granata ha colpito la facciata del Duomo, mentre un’altra ha perforato il tetto sopra la grande lampada, davanti all’altar maggiore. Nessuna delle persone che assistevano alla prima messa è stata colpita. Dalla paura molte sono però cadute a terra, svenute. Quante saranno le vittime di questo bombardamento? Lo si saprà solo più tardi. Fra le vittime più cospicue sono da annoverare finora il priore e il vicepriore dei Fatebenefratelli. Il secondo morì sul posto. Il primo ha riportata una complicata doppia frattura del femore. Egli è stato subito rimosso. È molto dubbio che rimanga in vita. La parte mediana dell’ospedale è distrutta. Oh questi… italiani! Sembra che oggi abbiano rinunciato perfino al pranzo per distruggerci. Cosa seguirà? Un assalto, probabilmente. Se avrà successo, allora siamo perduti. Se non avesse successo…, allora è prossimo un altro più grave bombardamento della città. Poveri goriziani!
Mentre sto scrivendo, le granate fischiano ininterrottamente sopra le nostre teste e colpiscono con un enorme frastuono; dal canto loro le mine sul Calvario e sul Sabotino lavorano in continuazione. Possiamo già esclamare Morituri te salutant? Se questa è la volontà di Dio, così sia! Il nostro Pastore si ricorderà di noi sull’altare; haec spes nostra! In vista di queste circostanze, naturalmente non si può più parlare di un ritorno di Vostra Eccellenza per il 18 corrente, a meno che tutto ciò non si concluda definitivamente entro pochi giorni, il che verrebbe comunicato a Vostra Eccellenza telefonicamente.
Il signor Semičar non si è fatto vedere oggi. Ho saputo che la sua casa è stata colpita da una granata. Della nostra sorte futura non so nulla. La gente di casa è tutta fuori di sé, il che è facilmente comprensibile. Ho già preso le necessarie disposizioni per ogni evenienza. Peccato che in momenti così importanti il generale Zeidler sia in licenza. Ma può darsi che si affretti a tornare molto presto. Sono circa le 2 e ½ del pomeriggio. Mi chiamano e devo interrompere la lettera.
(Francesco Castelliz. [Lettera del 6 agosto 1916 all’arcivescovo Francesco Borgia Sedej], in Camillo Medeot. Lettere da Gorizia a Zatičina. Udine, La nuova base, 1975, p. 72-75)