I ricordi di Luigi Visintin (4- 8 agosto 1916)

La città aveva già subito alle ore 11 di venerdì 4 agosto un lungo bombardamento con calibri pesanti e così pure il giorno 5. […] Era già stata semidistrutta dai precedenti bombardamenti di quasi 15 mesi durante le precedenti cinque battaglie dell’Isonzo e spopolata, quando alle ore 6 e 45 di una chiarissima mattina di domenica del giorno 6 agosto incominciò la battaglia dell’Isonzo o di Gorizia con un fuoco di straordinaria violenza, da Tolmino fino al mare. Il rombo di 600 cannoni squarcia l’aria. Dopo un’ora intervengono anche le bombarde.

Tutte le colline dove si combatteva, Calvario, Podgora, Grafenberg, Peuma, Oslavia, Vallone della Peumica e monte Sabotino, erano coperte da una densa cortina di fumo in cui si vedevano i lampi degli scoppi continui. Dopo brevi pause, verso mezzogiorno il fuoco riprende intensissimo e presto raggiunge il ritmo tambureggiante. E ora anche la città è avvolta nel fuom e nella polvere. I grossi proiettili sibilano e scoppiano in tutti i sensi, mentre quelli di piccolo calibro, a centinaia, sibilando con toni diversi, passano oltre.

Anche i sobborghi di Salcano, San Pietro e Sant’Andrea sono investiti e incendi scoppiano dappertutto, in città e alla periferia. I colli non si vedono più, si vede solo il Sabotino, avvolto anch’esso nel fumo causato dal fuoco delle bombarde che scoppiano con inaudito fragore il cui eco arriva fino a noi rimbombando e facendo tremare anche la città.

Durante una breve interruzione esco all’aperto e vedo sulla strada una compagnia di soldati dalmati che camminano silenziosi tra le macerie dei muri diroccati in un silenzio di rovina. Qualche commento e avanti verso il Calvario attraverso Podgora, verso la strage. Non possiamo più muoverci, né scappare. Siamo imprigionati nelle case. Ogni tanto una casa crolla e seppellisce qualcuno.

Cammino un tratto con i soldati e poi mi dirigo di corsa verso la Castagnevizza per la via del Torrente (Corsica) e il Clanzut (via del Molino) dove vedo dei soldati della sanità che trasportano con una portantina un ferito grave che si lamenta: “Mein Gott!”. È un Egerländer boemo della Landsturm. Dall’alto della Castagnevizza mi appare uno spettacolo impressionante. Tutta la conca di Gorizia e i monti circostanti erano avvolti in un turbine di fumo e di fuoco. Ero turbato e preso da uno spavento che sconfinava nella magia delle favole. Ero un ragazzo. Anche sul castello scoppi e fumo. Incendi e scoppi a ripetizione in Piazza Grande, via Scuole, via Signori, via Ascoli, via Corno e lontano verso San Rocco e sul Carso.

Scappo perché una tempesta di proietti sta abbattendosi sul colle. Sotto il colle, nel tunnel della ferrovia transalpina, sono rifugiati già dal pomeriggio del 6, alcuni abitanti della via Orzoni scappati perché all’uscita da una funzione religiosa, era caduta una granata davanti al portone delle suore di “Villa Rosa” (poi convitto Dante A.[lighieri]) e aveva ucciso il contadino Giuseppe Bressan di 16 anni di via del Brolo e ferito Giacomo Selic, asportandogli un braccio, abitante in via dei Campi, il quale era stato giardiniere nel palazzo reale di re Nikita del Montenegro e aveva cullato la figlia Elena futura regina d’Italia.

[…]

Tornando dalla Castagnevizza, presso la scuola popolare di via della Cappella, sono colpito alla coscia sinistra da un pallettone di schrapnell scoppiato a una ventina di metri sopra la mia testa. Vengo medicato da un Sanitäts Korporal nell’infermeria militare di via della Croce presso la scuola slovena Solski Dom. Dopo medicato con la sola tintura di jodio, il soldato mi regala una pagnotta militare e una corona. […]

Il 7 è il giorno della decisione. Il bombardamento continua senza sosta e terribili combattimenti si svolgono sul Podgora, a Oslavia e sul Peuma. I feriti passano a gruppi, alcuni a piedi e altri più gravi sui carri. Alcuni si piegano e cadono a terra. La terra trema in continuazione. Proiettili tanti e tanti e di tutti i calibri. Fischiano e scoppiano sopra le nostre teste seminando morte e distruzione. Fischi e scoppi si confondono in un unico boato. Proiettili come se tempestasse e per le strade non si può passare.

I pochi abitanti che ancora rimangono, forse 2.000, sono attaccati a queste macerie che una volta era la loro città [sic]. Sono restii a partire e dicono di preferire morir qui sulla terra dell’Isonzo piuttosto che lontani in terra straniera. Si raccontano miserie del campo profughi di Wagna nella Stiria, già prima campo di baracche per i profughi della Galizia orientale ed ora adattate per i profughi del sud.

L’8 è una giornata calda e afosa ma bellissima e dal Podgora continua a scendere sopra la città la lunga cortina di fumo che si estende su tutta la testa di ponte, da Lucinico fino al Sabotino per una lunghezza di circa 9 km. Già passano colonne di carri che, sgomberati i magazzini militari, trasportano le munizioni e i viveri. Viene l’ordine di partire; alcuni se ne vanno in direzione della Val di Rose, altri verso S. Pietro a prendere il treno a Ovčja Draga. Altri ancora restano e finiranno profughi in Italia. E altri ancora nei… cimiteri.

Ci troviamo in mezzo a due opposti schieramenti: partiamo anche noi, con la speranza di ritornare a casa il giorno seguente. Ma non sarà così

[…]

Abbiamo abbandonato la nostra abitazione dopo che una granata scoppiando nell’interno della cucina aveva ucciso un bambino di 11 mesi, ferito la nonna che lo teneva in braccio e feriti noi con mia madre e mia sorella scaraventata dalla finestra del primo piano in cortile per lo spostamento d’aria. Cinque minuti dopo era accorsa la croce rossa dei bosniaci. “Eidete, andate via”, ci dicevano i soldati dalmati che scendevano per la via del Corno in ritirata verso la seconda linea di difesa austriaca dei Rafutti, del bosco Panowitz, del San Marco, Vertojba e Sveta Katharina. “Abbiamo lanciate le ultime bombe a mano del distrutto ponte sull’Isonzo e gli italiani devon essere dietro di noi, in via degli Orzoni”. Invece non era così, perché gli italiani non potevano attraversare l’Isonzo in quel punto, impediti dalle artiglierie. Ciò fu possibile solo il mattino dopo del giorno 9 agosto.

Così, con poche robe raccolte in uno zaino e in una cesta, abbandonammo la nostra casa feriti e sotto una tempesta di schrapnells che scoppiavano in aria sventagliando i pallini di piombo sopra le nostre teste e riparati dalla pioggia di fuoco dietro a qualche riparo di fortuna, attraverso la Piazza del Corno con la casa della panetteria Drascek in fiamme, dove il falegname Blas Zanetti dell’Arbeiter abteilungen, in permesso e un po’ allegro, sorbiva un liquore tra il fuoco e il fumo che usciva dalla pasticceria, gridando verso mia madre: “Giuditta che no stei la via… [non vada via]” impensabile in quel momento e in quelle condizioni. Vicino alla fontana un cavallo morto e il suo cavaliere a terra con la testa staccata. Era un capitano che dopo i feroci combattimenti ad Oslavia fungeva da parlamentare durante le tregue per raccogliere i morti rimasti a migliaia sul terreno della lotta che imperversò per 15 mesi su quel colle insanguinato.

Nell’attimo di tregua, di corsa su per la via Sant’Antonio dove riparammo nel portone della casa N. 26 (di allora) di fronte al casamento fabbrica candele Kopač, colpita e demolita in quel momento da una granata di grosso calibro. Cessato il pericolo, a salti oltre il materiale della casa diroccata, impolverati, abbandonando nella fuga precipitosa il cesto con le poche robe, quasi di corsa su per la Piazza del Cristo, via dietro Castello scalzo e con le scarpe di lacca a tracolla, opera del calzolaio Madriz, sempre accompagnati dagli schrapnells che ci obbligavano a buttarci ogni momento nel canale, che costeggiava la via, per non essere colpiti, arrivammo alla Casa Rossa assieme ai soldati in ritirata dove stavano già stendendo i reticolati e cavalli di frisia, chiudendo Gorizia perduta per un nuovo campo di altre sei tremende battaglie dell’Isonzo.

Così verso il tramonto dell’8 agosto 1916 varcammo la linea che ci separerà dalla nostra città per un lungo e triste esilio in terra straniera.

Ogni movimento è cessato. Per la Val di Rose non passa più nessuno. Siamo passati fra gli ultimi la sera innanzi. Ho visto sul portone d’ingresso del bosco Panovitz, nella Val di Rose che parlava con un maggiore austriaco, la cugina Maria classe 1891, anch’essa in fuga, tutt’ora vivente a 91 anni. Ti ricordi Maria di allora, eri una bellissima ragazza, io non capivo molto allora, ma tu hai detto che quell’ufficiale era innamorato di te. Ti ricordi Maria? Ma subito dopo hai continuato il cammino, verso Aisovizza per raggiungere i tuoi genitori profughi a Berje-Martini (Reifenberg).

(La testimonianza di Luigi Visintin è contenuta in diversi articoli della serie “Gorizia segreta”: La conquista di Gorizia e il secondo di Baruzzi, in “Voce isontina” del 4 settembre 1982, p. 11; Una storia di mostre [sic] e di violenze, in “Voce isontina” del 18 settembre 1982, p. 11; Ultimi giorni di battaglia, in “Voce isontina” del 25 settembre 1982, p. 11)