I ricordi di Henrik Tuma: maggio 1915
Il 24 maggio 1915, giorno in cui cominciò la guerra con l’Italia, ero rimasto in ufficio per tutta la giornata, anche se era domenica. Alle sette di sera, tornando a casa per la solita strada, passai accanto al caffè Al Corso. In genere, di domenica, il marciapiede antistante il locale era ingombro di tavolini, che quel giorno erano quasi tutti occupati da ufficiali dello stato maggiore austriaco. In un angolo sedevano alcuni noti rappresentanti del partito socialdemocratico italiano, uno dei quali mi si avvicinò e mi disse ad alta voce in italiano: “Abbiamo saputo in questo momento che proprio oggi l’esercito austriaco si ritira verso Postojna [Postumia]. Gorizia è aperta all’Italia”. Io gli risposi: “Se gli italiani mi danno 300.000 uomini, in una settimana sono a Lubiana”. Arrivato a casa riferii subito a mia moglie la notizia, per me buona, secondo la quale l’esercito italiano sarebbe entrato in città probabilmente già il giorno dopo. Non era escluso che durante la notte ci sarebbero state delle scaramucce tra le avanguardie italiane e le retroguardie austriache, con scambi di fucileria e assalti alla baionetta. Quindi, per passare la notte al sicuro, portammo nella cantina, che era piuttosto profonda e ben protetta, delle tavole e vi disponemmo sopra dei materassi. Di sopra, infatti, qualche pallottola sarebbe potuta entrare nella camera da letto. Io immaginavo che tutto si sarebbe risolto in una notte. Stetti in ascolto per tutta la notte, ma non udii alcun rumore, ed anche la mattina seguente tutto era tranquillo. L’esercito austriaco era rimasto al proprio posto e aspettava, ma degli italiani neanche l’ombra. Sulle prime lo stato maggiore austriaco fu sorpreso del fatto che gli italiani non avessero cercato di avanzare.
Lunedì fu dato l’ordine che alle otto di sera tutte le finestre fossero chiuse con gli scuri e che le luci fossero spente: i militari di guardia sarebbero stati autorizzati a sparare contro quelle case le cui finestre fossero rimaste aperte e illuminate.
Martedì, verso mezzanotte, si udì per le vie di Gorizia il rumore di soldati in marcia; erano i genieri che partivano per raggiungere l’Isonzo e le estreme alture del Collio. Si cominciarono a scavare trincee lungo una linea che dalla cima del Podgora passava per Oslavje [Oslavia] e arrivava fino alla vetta del Sabotin [Sabotino]. Un’altra trincea veniva scavata lungo l’Isonzo. Da ciò arguii che lo stato maggiore austriaco aveva deciso di schierarsi su posizioni difensive. Era stato infatti informato che l’armata italiana non era ancora pronta a combattere e che aveva mandato solo delle avanguardie fino a Kojsko [Quisca], dove si era fermata. Il motto di Borojevič, comandante supremo dell’esercito austriaco, era: “Tentiamo!”. Ora mi rendevo conto che si sarebbe combattuto per il possesso di Gorizia e che io avrei potuto perdere tutto il mio patrimonio. La villa dove abitavamo sorgeva a circa mille metri in linea d’aria dalla prima trincea austriaca. Poiché sulla linea del fronte tutto era tranquillo, io continuavo ad andare in ufficio: ma ordinai a casa di mandarmi immediatamente a chiamare non appena ci fosse stato del pericolo.
Il terzo giorno dall’inizio della guerra, mercoledì, venne da me Klanjscek, il podestà di Števerjan [San Floriano], un paese situato oltre l’Isonzo e quindi già rientrante nel raggio di azione dell’armata italiana. Siccome mi dimostrai stupito che fosse potuto venire in città, egli mi disse che gli italiani se ne stavano tranquilli a Kojsko [Quisca]. A Števerjan [San Floriano] era venuto lunedì un reparto di soldati italiani, che però, dopo aver dato semplicemente un’occhiata al posto, erano tornati indietro. Anche dalla parte austriaca nessuno gli aveva impedito di raggiungere la città.
Sull’Isonzo continuavano ad affluire, solitamente di notte, sempre nuove colonne militari austriache, che provenivano dal fronte russo. Nei primi giorni della settimana furono portati due cannoni da 16 cm, che furono sistemati non lontano dalla mia villa. Dopo averli puntati verso il Collio, cominciarono a far fuoco. I cannoni venivano spostati da un posto all’altro, perché gli italiani credessero che l’esercito austriaco disponeva di molti pezzi. La frequenza con cui essi venivano fatti sparare fece sì che il quarto giorno uno dei due scoppiò, uccidendo alcuni soldati.
(Henrik Tuma. Dalla mia vita. Ricordi, pensieri e confessioni. Trieste, Devin, 1994, p. 364-365)