I ricordi di Giorgio Richetti: profughi a Roma
“Eravamo profughi. Doveva essere una brutta cosa, perché quando noi lo dicevamo – pur senza capire che volesse dire – il commento era invariabilmente lo stesso: “Oh, poveracci…”
Già, ci era stato spiegato che quella in cui abitavamo non era la nostra casa, perché quella era dall’altra parte del fronte, là dove stavano gli austriaci. Cosa voleva dire casa nostra? E che voleva dire fronte? E poi… Chi erano gli austriaci?
In realtà voleva dire che al di là – dove c’erano loro – papà non poteva raggiungerci, che non riusciva neppure a scriversi e che da quando eravamo lontani non sapevamo più niente di lui. Tanto che un giorno il mio fratellino minore aveva domandato: “Cosa vuol dire papà?” […]
Eravamo profughi. Ci dovevamo accontentare di quel poco che c’era, cioè lo stretto indispensabile per tirare avanti. Probabilmente i nonni ne soffrivano, abituati com’erano alle loro comodità, mentre la mamma sopportava tutto serenamente. E noi non immaginavamo neppure quanto si potesse stare meglio. Qualche volta ci lamentavamo del freddo, perché la stufa si accendeva soltanto nelle grandi occasioni, ma il fatto che i nostri abiti fossero rammendati e rattoppati all’infinito apparteneva all’ordine naturale delle cose. Né ci mancava qualche gioia straordinaria: ogni sera c’era _ per ognuno di noi – una caramella o un pezzetto di cioccolato, per lo più dono di qualche parente meno disagiato.”
(Giorgio Richetti. Tornare a casa. Il percorso di un uomo attraverso i suoi racconti. Arcidosso (Gr), Effigi, 2015, p. 21-22 )