I ricordi di F.X. Zimmermann: Gorizia nel novembre 1917
[…] Questa era l’atmosfera che si respirava a Gorizia nella primavera del 1913. Fra quel maggio, però, e l’attuale autunno sono trascorsi appena quattro anni e mezzo. In questo lasso di tempo è intervenuto il più grande sconvolgimento politico e bellico della storia: sono crollati imperi, sono stati creati nuovi confini, e pensieri e valori sono mutati come mai successo prima. Anche per Gorizia stessa è stato il più grande evento della sua storia. Cosa hanno significato infatti per Gorizia il breve dominio veneziano fra il 1508 e il 1509 o la guerra friulana esattamente trecento anni fa? Che cosa ha significato per la città l’epoca franco-illirica dal 1809 sino al 1813 in confronto con gli anni di guerra che dal 1915 l’hanno devastata sino a ieri? Quegli avvenimenti del lontano passato della città non avevano nemmeno scalfito la sua natura. Quelli recenti, invece, l’hanno cancellata. Gli anni che ho ricordato sono stati soltanto capitoli della sua storia che passava, Dal novembre 1917 invece ogni parola sulla nostra vecchia Gorizia può essere soltanto un epilogo. Un necrologio, una parola conclusiva, un addio.
Perché la Gorizia così come la conoscevamo ancora due anni e mezzo fa, così come l’abbiamo amata, non c’è più.
La Grande Guerra ha significato non soltanto qualcosa di più della semplice conclusione di un capitolo della sua storia, ma addirittura la fine dell’esistenza della città di un tempo.
Per dare un’idea dello stato in cui abbiamo ripreso possesso della città togliendola dalle mani del nemico, adeguata e sufficientemente chiara più di ogni altra è l’espressione con cui i greci solevano annunciare la caduta di una città assediata: “Kejtai” – “giace”. Questa parola mi venne dolorosamente in mente quando rimisi piede nella città pochi giorni dopo la ritirata degli italiani. “Essa giace…” in parte distrutta, sconvolta e riconoscibile solo a tratti dal tracciato delle strade, dalle impalcature sfondate di svettanti torrette, dall’estensione delle sue piazze e dalle isole verdi dei suoi giardini. A chi la guarda dal castello, oggi la città appare come uno scheletro, rispetto a come proprio da questo punto essa si mostrava un tempo nella sua bellezza e nella serena pienezza della sua vita. Parimenti devastata è la campagna intorno, spoglia, grigia e bruna; spoglia è anche la cerchia di monti e di colli d’intorno e la campagna, la sacra terra, madre e origine di ogni vita, è ferita, lacerata e dissestata.
Un tempo, prima di giungervi passando l’Isonzo, i nemici, italiani, la stessa stirpe della popolazione cittadina, chiamavano Gorizia la “città ridente”, nel senso di amabile, cordiale e graziosa. Ne hanno fatto invece, poi, una città morta, in cui l’unico palpito vitale è solo quello dei pochi civili rimasti e rifugiati per sottrarsi alla furia del nemico in ritirata, mentre il vecchio spirito, la sensualità, l’atmosfera della città si sono dileguati con i suoi abitanti sfollati, fatti prigionieri o dispersi: in essa non una casa saluta ancora intatta chi ritorna. Macerie e rovine, pietre e travi, cornicioni e balconi giacciono ancora a cumuli sulle vie e sui marciapiedi, sulle mura si aprono crepe e fessure, gli interni violati da brecce e crolli. Coperture di paglia e cannicciate sistemate contro l’avvistamento da parte degli aviatori penzolano ancora di casa in casa sulle vie, un dileggio agli striscioni colorati appesi un tempo sopra le strade con cui anche Gorizia si addobbava alla maniera italiana in occasione di feste e celebrazioni, a migliaia cavi e fili contorti, trasmettitori ora muti di ordini nemici, tesi sulle facciate senza finestre delle abitazioni; le finestre ai pianoterra e degli scantinati sono murate e dalle feritoie ricavatene spuntano minacciose bocche di fuoco a ostile saluto. Barricate, ostacoli e blocchi interrompono il cammino, trincee e passerelle attraversano vie e piazze, parchi e giardini; profondi scavi portano immediatamente in un sistema sotterraneo di depositi di munizioni e esplosivi. Qua e là il silenzio è ancora rotto dall’esplosione di munizioni, qua e là divampano ancora delle fiamme e da residui ormai carbonizzati di incendi sale ancora del fumo. Paglia, stracci, armi, fango e rifiuti ricoprono le strade, mucchi di detriti, sabbia, cenere e pietre s’innalzano nei cortili e alle entrate delle case sino al primo piano e da ogni buco sulla via saltano fuori e brulicano, se non vi si mette prima il piede sopra, orde disgustose di ratti… La sera avvolge completamente ogni visione della città e l’oscurità stende un velo su un campo di battaglia appena abbandonato dai soldati, un luogo di scontro, un luogo di orrori e distruzioni abbandonato da Dio e dagli uomini. Non una fontana col suo scroscio d’acqua, non un lampione acceso… rapidi scorrono sul selciato solo i fasci luminosi dei fanali di qualche camionetta rimbombante o i bagliori delle lanterne di qualche drappello. Una notte buia e paurosamente muta. Ma in alto si dispiega ancora il caro splendore delle stelle del cielo goriziano nel blu più profondo. Il Gran Carro sopra il Monte Santo e Cassiopea sopra il Podgora…
Ecco che il cuore si stringe alla ricerca dolorosa della città nel farsi strada a tentoni fra gli effetti devastanti di granate a mano e torpedini aeree, fra mine e materiale bellico di ogni tipo. Qualsiasi visione di città sfugge ai sensi. Perché una città significa un insieme integro, un complesso urbano organico pieno di vita e di uomini pacificamente operosi. Qui manca sia l’uno che l’altro. Il cosmo del mondo cittadino è sospeso, al suo posto vi è il caos. La città che una volta c’era qui, non c’è più. C’era una volta Gorizia. Ora è soltanto dentro di noi, è un sogno, una favola, un ricordo.
Solo dentro di noi risorge così come l’abbiamo conosciuta, come l’abbiamo amata. Un gioco di pensieri, una fantasia rivolta all’indietro… Sosto sulla soglia di una casa saccheggiata, e i giorni e gli anni, vissuti un tempo in essa, scorrono in pochi minuti per rifluire in un passato che non ritorna più. Ciò che era legato al luogo, scompare; ma quello che portiamo nell’anima, ci accompagna ovunque. La Gorizia della nostra anima rimane. […]
(Franz Xaver Zimmermann. Gorz. Geschichte und Geschichten aus der Stadt, der Grafschaft und ihrem friaulischen Vorland. Klagenfurt, John. Leon sen., 1918; edizione italiana: Gorizia di ieri. Gorizia, LEG, 2008. p. 20-24)