I ricordi di Enrico Rocca interventista e volontario

Un giorno dalla casa materna evasi verso il mondo e, dalla piccola patria di coloro che si dicevan goriziani perché slavi non volevano e italiani non potevan essere, sconfinai nella patria più grande dalle cui rive, di tra il velame della poesia, intuivo il continente spirituale d’Europa.

Ma alla mia candida città ritornai con mutato e più ricco cuore. La rivissi nell’ansia che altri la liberasse senza di me quando, infagottato nella buffa divisa blu di cappellone, pallido studente accomunato per la prima volta al rancio grosso, alla fatica, alle rozzezze, al sonno di sconosciuti contadini e operai in divisa, aspettavo cieco d’impazienza che il comando, anziché con cicchetti burbero-benefici, rispondesse alle mie reiterate, poco militaresche domande dirette, regalandomi il grigioverde dei soldati veri e facendomi partire per lassù. Ogni mattina alla sveglia i richiamati ferraresi dell’84, illudendosi che la loro anzianità fosse un buon motivo pel congedo, borbottavano stirandosi: “Chissà se is mànden a ca’ (chissà se ci mandano a casa)”. Ad ogni marcia, a ogni ora la bella campagna comasca, il paradiso di lusso del lago erano l’esilio della mia insofferenza.

(Enrico Rocca. La distanza dai fatti. A cura di Alberto Spaini. Milano, Giordano, 1964, p. 76-77; altra edizione con il titolo Diario degli anni bui. A cura di Sergio Raffaelli. Udine, Gaspari, 2005, p. 53)