I ricordi di Clemente Furlani: dal cimitero della Grassigna al Municipio (6-8 agosto 1916)

Il bombardamento della città nei primi cinque giorni di agosto non fu che il preludio della battaglia. La vera azione ebbe inizio il giorno 6, in cui il monte Sabotino, il paese di Salcano e la città con i suoi sobborghi furono avvolti dal fuoco e da una nube di fumo, nella quale balenavano i lampi di arrivo dei proiettili e delle bombarde.

Lo stesso giorno l’artiglieria italiana bombardò continuamente la fabbrica di mattoni, situata a breve distanza dietro il cimitero, dov’era appostata una batteria dell’artiglieria austriaca, per cui la mia famiglia ed io ci trovavamo sotto l’incubo dei proiettili che fischiavano sopra la nostra abitazione. Tremava la terra come scossa dal terremoto, tremava l’edificio, tremavano le porte e le finestre, eppure ciononostante non mi sentivo di abbandonare quel pio luogo, perché nutrivo il vivissimo desiderio di assistere all’entrata delle truppe italiane nella nostra città.

Verso l’imbrunire non si sentiva più il rombo dei cannoni, ma bensì il continuo crepitar della fucileria; e tutto ad un tratto anche questo cessò e si poté udire dalla parte del Sabotino l’urlo dei combattimenti. Intuii che ormai il monte era stato espugnato dalla fanteria italiana.

Di buon’ora la mattina seguente montai in bicicletta e mi recai in città ad acquistare generi alimentari. In quella occasione entrai in Municipio dove incontrai l’impiegato Antonio Braulin, al quale narrai che la sera precedente il Sabotino era stato espugnato, per cui l’entrata delle truppe italiane in città doveva essere imminente. Egli mi domandò che cosa intendevo di fare, cioè se rimanere a Gorizia o no. Io gli risposi che a costo di nascondermi con i miei familiari in una tomba, sarei rimasto ad attendere l’entrata dell’Esercito Italiano; ciò che egli approvò.

Durante i giorni 7 e 8 agosto, in cui il bombardamento si faceva sempre più intenso, la mia famiglia ed io ci rifugiammo nella tomba [mausoleo] dei baroni Ritter, a poca distanza dalla nostra abitazione, essendo costruita in pietra massiccia; sembrava resistente. Fu proprio da lì che ho avuto la persuasione che il Sabotino era stato espugnato. Visto però che la sera dell’8 agosto la nostra abitazione era stata colpita, verso la mezzanotte decidemmo di abbandonare quel pio luogo e recarci a Gorizia, sperando che fosse già stata conquistata dalle truppe italiane.

La nostra traversata in quella notte tremenda fu molto pericolosa; i proiettili fischiavano sopra di noi continuamente; la via del Camposanto, che di solito era semibuia, in quella notte invece ogni tanto veniva illuminata dai raggi dei riflettori e dai razzi incandescenti, che venivano lanciati dai colli circostanti, cioè da Oslavia e da San Floriano. La strada era tutta ingombra dal materiale stradale sconvolto dallo scoppio delle granate ed a intervalli coperta da grossi rami degli alberi infranti.

Io che tenevo in braccio la mia ultima bambina Bice che aveva appena due anni d’età, dovevo camminare con circospezione per non inciampare nei rami e cadere nei buchi; così pure doveva fare mia moglie che teneva per mano nostra figlia Gemma di nove anni; e anche mio figlio Guido camminava con la dovuta precauzione.

Quando fummo arrivati all’imbocco della via Torrente scorgemmo una ventina di militari austriaci accovacciati ai piedi del muro di cinta del parco retrostante il palazzo dei conti de Baguer. A mio parere, quei soldati probabilmente facevano parte della retroguardia delle truppe austriache oramai in ritirata.

Proseguendo il nostro cammino giù per la via Silvio Pellico, vedemmo la casa Drašček tutta in fiamme; si aveva paura di passarle vicino. Anche la casa del cappellaio Pich in via Rastello ardeva. Sopra i tetti delle case in via Monache picchiettavano le pallottole delle mitragliatrici, le quali probabilmente provenivano dal Podgora; pareva una fortissima grandinata.

Nonostante tutto quell’inferno, ringraziando la Divina Provvidenza, arrivammo tutti incolumi al Municipio ch’era la nostra meta. Quivi trovammo tutta la famiglia di mia sorella Anna Bonnes, nonché parecchi funzionari, fra i quali anche l’ing. Del Neri. Questi si meravigliò di vedermi arrivare con i miei familiari a quell’ora – era l’una dopo la mezzanotte – e in momenti tanto pericolosi. Gli feci comprendere il vero motivo di quella rischiosa traversata ed egli mi consigliò di essere prudente per non lasciar trapelare i miei sentimenti.

Un’ora circa più tardi, allorché mi trovavo nell’abitazione di mio cognato Luigi Bonnes, che allora funzionava in qualità di custode del Municipio, udii dei passi ben marcati d’un plotone militare. Credevo fossero soldati italiani, invece, accostatomi alla finestra del pianterreno, attraverso le persiane potei constatare che si trattava di militari austriaci che, a mio modo di pensare, dovevano essere gli ultimi in ritirata provenienti dal Calvario.

(Clemente Furlani. Nonno Clemente racconta… in Cronache goriziane 1914-1918. A cura di Camillo Medeot. Gorizia, Arti Grafiche Campestrini, 1976, p. 319-322)