G. M. Trevelyan. La terza battaglia dell’Isonzo
“Il 19 ottobre 1915 cominciò il bombardamento preliminare italiano del Monte Sabotino; e si protrasse fino agli ultimi di novembre una prolungata offensiva invernale contro tutte le posizioni che proteggevano Gorizia. […] Quante volte, nei freddi tramonti d’ottobre, guardai dalla collina di Quisca i granatieri balzare dai loro muriccioli di sassi, ed avanzare, attraverso gli spalti del Sabotino, nell’ombra cadente della notte e del destino! Allora, dopo poche ore, l’afflusso delle barelle cominciava ad arrivare nel cortile del vecchio castello del decimottavo secolo, nel quale la Sezione lavorava, medicando i feriti mano a mano che giungevano e caricandoli poi sulle nostre vetture, che li trasportavano a Cormons. A mezzanotte, tutto il luogo era coperto di forme distese, dilaniate, a centinaia, fra le quali i chirurghi infaticabili, insonni per giorni e notti intere, sfruttavano se stessi al di là delle proprie forze, affannandosi a mantenere a livello la marea insistente; e sempre, verso l’alba, in mezzo all’orrenda scena, resa più orrenda dal gelido ritorno del crepuscolo, la voce scoraggiante della fronte correva di bocca in bocca: “È andata male”.
…
Infine, nella prima settimana di dicembre, una nebbia scozzese – gli italiani la chiamano “inglese” – calò e rimase immobile su quella scena della battaglia e del dolore. Gli italiani ammisero a malincuore che Gorizia doveva aspettare fino all’anno seguente.”
(George Macaulay Trevelyan. Scene della guerra d’Italia. Bologna, Zanichelli, 1919, p. 71-72)
Senza luce
Il 2 novembre 1915 Napoleone Battaglia (1895-1920) viene ferito e fatto prigioniero a Oslavia. Rimasto cieco, descriverà il suo ferimento e il ricovero a Gorizia nel libro di memorie Senza luce.
Sotto un cielo piovorno s’innalza il colle di Oslavia, la scalinata fangosa, chiusa fra il Peuma galleggiante e rosseggiante di selve autunnali e il Sabotino enorme, nudo, grigio, sassoso, tinto in basso dall’autunno. Sono sulla vetta espugnata, dove nel grigiore del fango stagna livida l’acqua piovana. Davanti a me monta un costone irto di viti morte, come d’un nero ossame, e tra l’aridità funerea di quelle piante è il vivo muoversi dei miei fanti che sparano contro il colle opposto. A lato di quel costone ch’è ripa a una strada, si leva una fontana di pietra, che pare velare di pia ombra un morto crocifisso nel fango, una croce umana che mostra una faccia bianca di cielo. E da quelle pietre sacre, lungo tutta la strada fangosa, fino alle ruine del paese, che solleva ancora nell’aria il suo campanile mozzo, nereggiano altri cadaveri, tutti austriaci, simili a gruppi cenciosi, che sangue e fango hanno lordati, da cui esce una pallida mano, o una pallida faccia, con occhi invetrati, sotto un livido lume di nuvole. […]
Questa l’ultima terra ch’io ho veduto, questo l’ultimo cielo, queste le ultime visioni che porto nel cuore. Poi è una muraglia buia che mi cancella il mondo […]
Pioveva a rovina. Già la barella austriaca sopra cui era disteso il mio corpo aveva raggiunto un luogo coperto, era stata posata sulla terra. […]
Sono in un luogo chiuso e angusto, in una specie di taverna dove stagna un’aria putrida e soffocante come di cadaveri. Vicino alla soglia dell’antro la poderosa voce d’un uomo affannato comanda con un accento quasi di disperazione. Mi fanno muovere un passo sopra uno strato di paglia, ma i miei piedi urtano dei corpi umani distesi. Allora mi sorreggono per le braccia, e scavalco tutti quei corpi distesi per ogni verso, addossati così che i miei piedi quasi non trovano intervallo per posare, e cavano a qualche ferito un gemito, un’imprecazione. Allora mi distendono nel breve vano ch’è tra due di quegli uomini in pena. […]
Ancora la pioggia. Un carrozzone aspettava, un alto carro scompartito a cassette, e dentro un di quei vani m’infilano come una bara. Il carrozzone si mette in corsa sobbalzando fragorosamente. […]
Ecco un giardino di Gorizia. Lo vedo appena odo scrosciare la ghiaia sotto i miei piedi, e una fredda folata di vento m’avvolge di foglie bagnate da quel piovigginare minuto e grigio sugli alberi autunnali. Poi scalini che salgono a un edificio, una lunga corsa di sale che vedo biancheggiare di luci al suono di chiare voci, la sosta in un luogo dove mi lavano la faccia insanguinata, poi scalini che discendono a una cameretta. Quivi sono pochi feriti che mormorano coi lor barbari accenti. Trovo il riposo di un letto, tutta la stanchezza del corpo e dell’anima s’abbandona come in una pace. Giorni di oscurazione di sofferenza. […]
Veniva a portarmi i pasti un’infermiera italiana, dalla giovane voce, e che pareva formare parole di musica e di colore. La ritrovo nel mio sogno come il prodigio di un usignolo che d’improvviso gorgheggiasse in un notturno deserto.
(Napoleone Battaglia. Tenebre, in Antologia degli scrittori morti in guerra. A cura di Cesare Padovani. Firenze, Vallecchi, 1929, p. 369-374)