Enrico Rocca a Plava l’8 agosto 1916
[…] rivivo un torrido pomeriggio dell’agosto 1916. Siamo sul punto .più alto di Quota 363, in quel di Plava, addossati al nemico. D’un tratto la porta del baracchino fetido, dove mi rifaccio d’un sonno vecchio di tre giorni, si spalanca cigolando e Tasca, il più scalcinato giannizzero della Brigata Benzina, mi sveglia di soprassalto annunciandomi: “Avanzano”. Il bombardamento che durava ininterrottamente da tante ore sui vicini settori non aveva potuto, cessato d’improvviso, fare altrettanto. Ancora mezzo assonnato, raggiungo lo sgabuzzino del capitano dove come da un osservatorio una porzione del Sabotino, grigia nuda e distaccata dalla verde dorsale del Planina, appare a chiusura della val d’Isonzo. Tasca ha ragione. Anche a occhio nudo si scorgono fanti, fanti e fanti inerpicarsi, fitti come formiche, su per la scoscesa petraia verso la cima.
Muti i colleghi ufficiali mi si stringono d’intorno e tutti, anche il capitano, cercan le mie mani con mani che tremano e mi guardano con occhi velati. Il più giovane, finalmente, il più comunicativo, rompe il silenzio: “Gorizia, Rocca, la tua Gorizia”.
Gorizia, Gorizia. Con la rapidità del baleno la notizia corre le trincee. Un tripudio inarticolato s’impossessa di tutti. Io resto come intontito, àfono. La grande felicità lascia indifferenti. Coronato così, concretamente, il sogno di tanti anni, sento l’umiliazione di non gioire.
Ma ecco due, tre, cento voci possenti destarsi, tuonare a coro. Tutto il crinale del Planina fiammeggia. È la salve festosa dei nostri cannoni cui al nemico pare non basti l’animo rispondere.
Poi son due colpi. Due. Il primo ci fischia rasente e va a scoppiare con fracasso a pochi passi. Il secondo… sento come una bastonata sulla testa. Intorno, dietro un velo, assi, fumo, sacchetti a terra, asfissia, odor di zolfo. Soffoco, barcollo, vorrei reagire. Il baracchino è sventrato. Sono ferito. Il capitano bestemmia.
Là per là mi sento quasi tradito. Per tanti mesi avevo creduto che quel creder nella causa mi rendesse invulnerabile. Ma poi mi ricordo di Gorizia e penso, intenerito, che il battesimo del sangue, proprio allo stesso giorno, alla stessa ora, sia un fondo legame nuovo con la mia città.
Col capo fasciato alla meglio mi lascio condurre alla “sezione”, giù a Plava. Strada facendo Tasca mi dice che il bombardamento è finito. Ma io lo sento tuttora, nel timpano destro, tambureggiare. All’indomani il capitano medico mi dichiara di non potermi, come voglio, rimandare in compagnia. La ferita alla tempia è lieve, ma ci posson essere conseguenze traumatiche. Vado allora dal generale. Egli si stupisce, mi trattiene a pranzo, è contento ch’io voglia prender parte all’azione che si prepara e mi promette che, dopo, mi farà andare a Gorizia.
(Enrico Rocca. La distanza dai fatti. A cura di Alberto Spaini. Milano, Giordano, 1964, p. 78-79; altra edizione con il titolo Diario degli anni bui. A cura di Sergio Raffaelli. Udine, Gaspari, 2005, p. 54-55)