Enrico Rocca a Gorizia dopo la conquista italiana – agosto 1916
“Pochi giorni dopo su camion, su carrette traballanti, a piedi, con la testa ancora fasciata, raggiungo la mia città. La via che seguo è quella delle mie cento passeggiate infantili, la stessa da cui sono entrati i “gialli” del calvario. Alle prime case quasi abbraccio un carabiniere. Per il Corso (non è un sogno?) passano le nostre salmerie. Davanti alla posta dove un giorno si davan convegno gli innamorati scoppia a un tratto uno shrapnell solitario.
Rifaccio la via mille volte percorsa tornando da scuola e dall’angolo di Piazza Duomo rivedo, con un tuffo al cuore, questa mia casa. È in piedi. Ma un grosso calibro sfondando un muro da un lato ha mescolato tre interni, e frammenti di mobili, scheggie di piancito e grovigli di materassi occhieggiano da quella polverosa rovina. La gragnuola di colpi ha butterato la facciata su cui spicca la risibile cautela delle persiane chiuse. L’ultimo tratto delle scale è franato. Qualcuno m’aiuta a sostituirlo con una scala a piuoli.
Entro nella metà dell’appartamento che ancora è praticabile. Tutto, nel tinello, è intatto. Dalla finestra su cui un giorno s’affossavano e cui di nuovo dovevan volgersi i grandi occhi pensosi di mia madre, l’azzurra catena del Carso si vede sparire e riapparire tra dense cortine di fumo. La bassa pianura del Vertoiba è martellata dal ferro e dal fuoco. Caute processioni di lettighe passano, nella piazza sottostante, tra nugoli di calcinacci e improvviso fiammeggiar di proiettili rabbiosi. Da dove verranno? Dal Belpoggio dove sognavo di cadere all’assalto o dal San Marco dove composi le poesie del primo amore.
Mi tolgo dal davanzale. I mobili, i vecchi mobili di casa mia mi guardano, per lamentarsi di tanta novità, con occhi vivi di bestie spaventate. Al disopra del tetto qualche marmittone passa rauco, vicino, poco rassicurante. D’un tratto quell’anacronismo d’essere in pericolo tra le già custodite pareti di casa mia mi diventa intollerabile.
Esco alla ricerca dei ricordi. In Piazza Grande il poggiolo da cui un giorno Anita (oh passeggiate e sospiri dell’adolescenza!) soleva affacciarsi è ingoiato da una nera voragine. Poco distante dalla fontana cade un 280. Una vecchietta, salva per miracolo, mi passa accanto gridando: “Gesumaria!” non so se più spaurita dall’esplosione o dalla gragnuola di sassi che ci piove tutt’intorno.
Vado in traccia di conoscenze. Nella cantina dell’Arcivescovado trovo la mia vecchia serva slava che resta senza parole vedendomi così vestito da ufficiale, con la testa ancora fasciata e poi, invocando tutti i Santi, m’abbraccia piangendo. il nostro placido medico di famiglia raccomanda ai figliuoli di star attenti alle granate come se si trattasse d’automobili. Al Caffè Teatro, sotto quella sinfonia, Pepi grasso continua, tremando, a servire gli ufficiali con i vassoi del tempo di pace. Qualche buon borghese, la sera, prendendo il fresco, osserva placidamente come, adesso che il fronte è rovesciato, è piuttosto difficile stabilire la provenienza e direzione dei colpi.
Due giorni rimasi nella mia città tentando perfino di raggiungere, tra le più strambe peripezie, il cimitero dove Anita era stata sepolta nel fior degli anni e dove accanitamente si combatteva. Ma poi, gira e rigira, avvertii non so quale scontento. Come se la patria e la casa fossero migrate altrove e non si trovassero più in questi luoghi che conoscevo a occhi chiusi, nelle persone riviste con tanto e condiviso stupore, ma lassù tra i soldati della mia compagnia, tra colleghi ed amici, in quelle tane di sacchi a terra verso cui mi traeva non so quale invincibile nostalgia. Prima ancora che scadesse il permesso lasciai Gorizia per tornare lassù dov’era ormai la mia vita.
(Enrico Rocca. La distanza dai fatti. A cura di Alberto Spaini. Milano, Giordano, 1964, p. 79-81; altra edizione con il titolo Diario degli anni bui. A cura di Sergio Raffaelli. Udine, Gaspari, 2005, p. 55-56)