Dall’Albania al campo di prigionia dell’Asinara: Valentino Semi
Finalmente le truppe serbe vennero quasi tutte prese in consegna dall’esercito italiano.
Ci fu annunciato che era la nostra volta. Un grido di gioia eruppe dai nostri petti. Era la fine, veramente la fine della nostra tragica marcia.
Ci preparammo a passare il fiume Viosa. Per mezzo di pontoni fummo trasportati alla riva opposta, nel territorio occupato dagli italiani.
Appena giunti nel primo villaggio, a pochi metri dalla sponda maledetta, ci furono distribuiti immediatamente una razione di carne, brodo, galletta. Ci pareva impossibile, dopo tanta fame. Carne! Brodo! Galletta! Ci pareva di essere alla mensa del re d’Italia. Oh, come abbiamo ringraziato Iddio e benedetto l’Italia! Così mangiammo quel giorno e i successivi.
Al 21 dicembre giungemmo davanti a Valona, presso il pare. Qui si doveva attendere per riunire quanti più prigionieri possibile, raccogliere tutti, salvare tutti. Ma quanti giunsero? Quanti non erano morti per la strada? Quanti non morirono colà per le malattie contagiose contratte durante la marcia?
Finalmente il 25 dicembre (Natale del 1915, chi ti dimenticherà?) nel cuor della notte fummo imbarcati sulla nave “Re Vittorio”: le operazioni finirono a mezzodì; le ancore furono levate, le eliche incominciarono a muoversi. Tremilacento uomini si avviavano alla salvezza, in quel Natale memorando. Verso l’Italia.
Che cosa aveva significato Italia per noi della Venezia Giulia già tanti decenni prima? Che cosa significava Italia per noi giuliani ora che l’Italia ci ridava la vita?
Addio Serbia maledetta, addio Albania infame!
Tre giorni il “Re Vittorio” peregrinò per il mare: per l’Adriatico, per lo Jonio, per il Tirreno. Puglia, Sicilia, Stromboli, terre intravviste e sognate.
Poi la Sardegna. La grande isola di Sardegna. La costeggiammo tutta. Doveva divenire per noi un ospizio. Prigionieri sì, ma in terra nostra, noi giuliani.
Così fummo sbarcati all’Asinara in località Fornelli.
L’isola d’Asinara chiude a nord-ovest con la sua forma allungata il vasto golfo di Castel Sardo, dalla sua estremità meridionale, di fronte a Capo Falcone, fino alla Punta Caprara, stendendosi nel mare, lievemente rivolta verso lo stretto di Bonifacio. Essa è gaia, verdeggiante, nella sua alternativa di pianure e collinette rupestri coperte da folte brughiere.
Un paese vero e proprio non esiste all’Asinara. Ci sono piuttosto abitazioni sparse qua e là: le case delle autorità preposte alla colonia penale agricola e alcuni edifici della stazione sanitaria fondata l’anno 1885.
Nella località Fornelli furono sbarcati oltre ottomila prigionieri di guerra. Gli accampamenti presero il nome dai piroscafi che ci avevano trasportato: “Duca di Genova”, “Re Vittorio” (il mio), “Indiana” e “Dante Alighieri”.
Le tende erano addossate l’una all’altra e solo uno strettissimo corridoio divideva le file di tende. Poi quest’ordine fu perfezionato e allargato. In ogni tenda cinque o più prigionieri coi pochi cenci e i rimasugli del bagaglio. Da giaciglio serviva poca paglia, cui aggiungevamo l’erba che si poteva raccogliere durante le passeggiate sulle pendici ridenti dell’isola.
Da principio, usciti com’eravamo dall’inferno serbo e albanese, Asinara ci parve un tal paradiso, che nessuno si curò dell’ordine, dell’igiene, neppure della disciplina: tutto pareva troppo bello e troppo prezioso per domandare di più o per fare di meglio.
Anche il nostro aspetto era quello che si può immaginare: l’aspetto di selvaggi. Non erano pochi coloro che vivevano quasi completamente nudi, o ricoperti soltanto da cenci sbrindellati, che non celavano la loro macilenza. Pallore e sporcizia si confondevano. Barbe lunghe, visi stralunati, occhiaie profondamente incavate erano le caratteristiche generali; e generale era pure un gesto, l’unico gesto di tutti: il grattarsi lento questa o quella parte del corpo, rispondendo ai morsi dei parassiti… Portavamo sciaguratamente sul corpo le stimmate delle sofferenze subite e nello spirito quel rilassamento che immancabilmente segue gli sforzi insopportabili. E l’essere al sicuro non ci faceva dimenticare gli orrori passati, i quali anzi ci si ripresentavano alla memoria di giorno, ci facevano sobbalzare di notte nel sogno.
La sola preoccupazione della propria esistenza dominava lo spirito d’ogni prigioniero, che limitava la propria giornata al soddisfacimento dei bisogni materiali istintivi, senza neppure un minimo temperamento con uno spizzico di ragione. E non mancò neppur qui, in questo primo periodo, qualche episodio disgustoso, come la lotta fra due uomini per i cenci d’un morto.
Misure profilattiche furono prese dalla autorità. Ma perché parlare di profilassi, quando le malattie erano state contratte ormai ed incubavano in noi dai giorni della Serbia? Tuttavia scoppiò il colera, del quale alcuni casi si erano notati pure in Albania, ma nessuno aveva denunciato né se stesso né il compagno, per non dover restar colà.
Si organizzò allora tra di noi una squadra di becchini. In una fossa comune riposano tremila nostri compagni. Una gran croce ombreggia il loro eterno riposo.
Le autorità fecero allora bruciare tende, abiti, tutto. Ricevemmo nuovo materiale di riparo, nuovo corredo in abbondanza. In due mesi tutto tornò normale.
Per i sopravvissuti l’aria dell’Asinara fu veramente un balsamo benigno, che rinfrancò e rinvigorì la salute. Le sponde verdi del Mediterraneo ci accoglievano ogni giorno e richiamavano pensieri sereni.
(Valentino Semi. Dall’Istria alla Serbia e alla Sardegna. Memorie di un prigioniero di guerra. Padova, Amicucci, 1961, p. 64-70)