Corrispondenti di guerra. Una notte a Gorizia

Gorizia, 7 agosto.

Ecco l’amor pendente… A grandi, massicce lettere è incisa l’iscrizione sulla parte anteriore dell’arco intonacato di giallo, le prime lettere maiuscole spiccano ambiziose, il tutto in lieve semicerchio sull’intradosso. Una traccia di affresco decora il muro sopra l’iscrizione: il Salvatore crocifisso è ormai scolorito. Dal cortile sporgono rami di pesco i cui fiori rosati rallegrano il vicolo; fasci di iris azzurrognoli e candidi come la neve impreziosiscono lo spazio erboso del cortile. […]

– L’hai visto?

Con il dorso della mano Giuta strofina gli occhi gonfi di pianto, tace, poi singhiozzando erompe un lamento:

– Il braccio a brandelli gli pende dal corpo, il calcagno sinistro è schizzato via. Non lo avrei mai riconosciuto, aveva la barba scomposta e ispida, le guance smunte e scavate. Lo zigomo sporgeva! Uno storpio, storpio, storpio….

[…]

Cosa hanno da spettegolare di sangue e ossa e le teste ricciute di finestra in finestra? Ah, sì è la guerra, c’è la guerra, si spara, si colpisce, si uccide e si viene uccisi. Presto lo avrei dimenticato. Com’era bello! I brevi sospiri davanti alla piccola torrida casa in via della cappella.

Gorizia in guerra. Nessuno sparo echeggia nell’aria limpida.

Gorizia, la splendida, unica, il nordico mitigato Veneto, il Lazzaroni con gli occhi sporchi nella veste pulita della domenica non sa e non percepisce nulla della guerra. Lungo via Salcano fino a piazza Edmondo de Amicis, poi via Carducci fino alla casa dei conti di Gorizia, ho visto giovani allegri con ragazze cinguettanti; la beneducata casalinga con la cesta della spesa, il signore vestito di bianco con la sigaretta in bocca, l’occhialuto insegnante di disegno, la corpulenta rivendugliola, il baldanzoso ufficiale – della guerra non c’è traccia alcuna.

L’ampia, vasta, bianca via del Corso si snoda con i suoi infiniti viali di platani, e panchine di pietra, levigate e fredde invitano ad una sosta. Giù fino all’acquedotto, su fino a piazza Catterini, nulla sfugge da questo osservatorio. […] Qui però nell’atrio del teatro, come lo si potrebbe definire? Cavalli sellati per le truppe, redini legate alle colonne della marchesa. E nel caffè accanto impolverati ufficiali di cavalleria nella loro uniforme grigia, macchie rossastre sulla camicia, o è sangue? Ah già, è di nuovo la guerra, e loro, ospiti che si sorbiscono un gelato, sono soldati in movimento da una linea all’altra.

[…]

Colpiscono qui e là. L’altro ieri hanno strappato la testa ad un povero spazzacamino. Hanno centrato una casa di tre piani che i proprietari per diversi motivi avevano dovuto abbandonare. Attraverso una finestra hanno lanciato una bomba in una casa di via Rastello, la donna anziana e sorda che si trovava nel locale adiacente non sa ancora oggi, da dove provengono quelle macerie. […]

Ero arrivato in via Rastello. Qui davanti ad una casa c’era un assembramento. Uomini, donne in camicia da notte si ammassavano stretti l’uno all’altro intorno ad una colonna del portico. Non era questa la casa di Giuta? Esatto, ecco nero su blu inciso: Ecco l’amor pendente… Un foro profondo aveva squarciato la malta e le tegole; la prima luce del giorno ce lo mostrava in tutto il suo orrore. Era caduta una bomba, ora lo capivo.

I raggi del sole mettevano a nudo la profonda ferita. Un raggio penetrava fino al muro confinante della casa vicina, illuminando il resto della scritta: nel canto me lodate…

E proprio in quell’istante arrivò da San Floria [sic] il primo saluto del giorno, il primo shrapnel con il suo fischio di morte…

(Bela v. Landauer. Feuilleton. L’amor pendente. (Una notte a Gorizia), in Scrittori austriaci sul fronte dell’Isonzo. Reportage del Kriegspressequartier. A cura di Marina Bressan ... Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2012, p. 29-32. Pubblicato su “Pester Lloyd. Morgenblatt” del 14 agosto 1915)