Dal Collio al Piemonte: i ricordi di Viktor Onesti

Assieme a mio padre che non era stato arruolato dagli austriaci, andammo giù in Italia. Fino a Verona proseguimmo tutti insieme, tutti quelli che eravamo di Serpenice, Zaga e Trnovo. A Verona, però, ci divisero. Alcuni andarono a Genova, altri ad Asti. Noi proseguimmo fino a Cuneo, ma non ci fermammo a lungo. Ci portarono con i carri giù a Saluzzo. A Saluzzo andammo a finire in una scuola, dove ci lavarono e sfamarono.

A Saluzzo la gente veniva a guardare e pensava. “Oddio, come sono? Sono eguali a noi”. Successivamente, proseguimmo verso il monte (come sul Collio), dove c’erano le carceri, la caserma, a anche un convento di frati e la chiesa. Noi andammo nel convento delle suore. Era vuoto, dicevano che dentro c’erano quelle suore che non uscivano mai. Poi c’era un grande salone, un lungo tavolo in mezzo, ai fianchi i letti, le brande … I maritati avevano un’altra stanza: gli adulti, gli anziani, i sostri genitori. Penso che quella stanza non avesse finestre. Mi ricordo invece che la grande stanza aveva una porta. Si vedeva giù la valle, su le montagne alte. Arrivammo quando l’uva era matura, in autunno.

Mi mandarono a scuola, eravamo in venti e il maestro parlava in piemontese, non in italiano.Io guardavo se c’era scritto qualcosa sulla lavagna, trascrivevo. Se c’erano dei conti li facevo a modo mio, e andava bene. Ma se c’era da fare un tema, io non lo potevo fare. Lo copiavo dall’altro scolaro che era vicino a me. Se stavo fermo, allora veniva il maestro e diceva: “Travaja, travaja”. Questo significa lavora, lavora… parlava in francese. Travaja, travaja lo capii più tardi.

La “mularia” ci insultava: “Austriaci!”. Una volta si nascosero dietro a un portone e mi tirarono un sasso in testa.: “Sei venuto a mangiare…”. Noi ci arrabbiavamo. Noi sloveni non eravamo in molti. Gli italiani erano sempre più numerosi, però ugualmente cercavamo i sassi lungo la strada, non scappavamo.

Rimanemmo a Saluzzo fino alla fine della guerra. Mi mandarono in un negozio di ferramenta. Facevo il garzone, e se il proprietario si assentava, vendevo i chiodi. La gente che veniva a comprare si meravigliava: “Ma se parla come noi”. Parlavo piemontese come loro.

La testimonianza di Viktor Onesti, nato a Serpenizza nel 1906, è tratta da Dorica Makuc. Voci di guerra e di confine, in La gente e la guerra. Saggi. A cura di Lucio Fabi. Udine, Il Campo, 1990, p. 235-263.