I cinque ostaggi goriziani

La mattina del 19 giugno, verso le 5, fui svegliato bruscamente. A fianco del letto scorgo un gendarme. Egli mi ordina di alzarmi e di approntarmi tosto per la partenza. Assieme ad altri quattro compagni: furlani, Ortali, Deperis e Vouk, dovevamo essere ricondotti, liberi a Gorizia. All’uscita dell’accampamento ci attende un altro gendarme. Perché tanta fretta di ricondurci liberi a Gorizia, mediante i gendarmi? Da essi nulla si ricava. Si parte. Dopo un viaggio disastroso arrivammo alle 6 del mattino del 21 giugno, alla stazione Nord di Gorizia. Essa è deserta, vi si scorgono delle rotaie divelte. I gendarmi chiedono al Comando militare della stazione una scorta che ci guidi alla sede del Comando di divisione.

Anche la città è deserta. Incontriamo qualche raro passante. Ci guardano di sfuggita, filano diritti fingendo di non riconoscerci, sorpresi dall’inattesa comparsa dei cinque malfattori, circondati da gendarmi e soldati.

Nella palazzina del Comando ci fanno attendere un’ora circa nell’atrio. Poi si affaccia un maggiore, ci getta delle occhiate torve, chiede qualcosa ai gendarmi. Afferro le parole: “casera… tribunale”. Trepidanti attendiamo la decisione. I gendarmi ci fanno cenno di avviarci, percorriamo la Via Tre Re si piega a sinistra… al Tribunale. Quivi veniamo consegnati quali arrestati in attesa di giudizio. Il sergente di guardia ci assegna una cella al I° piano e ci avverte che mentre si preparerà la cella potremo scendere nel cortile. Esso è piccolo, di forma quadrangolare, compresa da tre lati da altrettanti corpi interni dell’edificio, chiusa dall’altro lato da una parete che arriva all’altezza del I° piano. Il cortile che aveva servito alle passeggiate dei detenuti, serbava le tracce di una pista circolare, sulla quale camminiamo anche noi. Compiuta metà del giro, vedo conficcata nel terreno, una trave, alta due metri con alla sommità una spranga di ferro. Poi discosto, nell’angolo, due scalette di legno, a gradini… M’avvicino al sergente che seduto su d’una seggiola ci sorveglia, gli domando che cosa significasse quell’arnese: “quello serve per…” e porta una mano al collo. “Giorni fa abbiamo già impiccato uno. Alla scena assistevano ufficiali e signore, erano spettatori proprio da questo punto”.

Il sospetto balenatomi andava confermandosi. Spiegai ai compagni di cosa si trattava. La forca era là pronta. Il ribrezzo che si provava all’idea che di là aveva penzolato un uomo, non ci consentiva di passare accanto a quell’ordigno. Ammutoliti, sconcertati dalla rivelazione, chiedemmo di ritornare nella cella. Rientrati, rinchiusosi dietro di noi il pesante uscio, ci guardammo, nessuno era capace di proferire parola. Chi si sedette sul pagliericcio, chi vi si sdraiò, tutti eravamo stanchi dal lungo viaggio, da due notti di veglia, sfiniti dal digiuno, spaventati dalla vista della forca…

Era iniziata una nuova esistenza. D’ora in poi vivremo nell’ansia continua, che l’uscio si apra ed uno di noi esca per non più ritornare. Come descrivere i sussulti, le scosse nervose provate ogni qualvolta udivamo introdurre le chiavi e stridere i catenacci?

L’ordine di prendere degli ostaggi. (Traduzione dal tedesco dell’originale in atti presso il Commissariato civico) […] il 9 giugno 1915.

Da alcuni giorni accade che sistematicamente vengono distrutte le condutture telefoniche e fatte segnalazioni al nemico, al quale scopo i veri malfattori impiegano dei ragazzi immaturi delle scuole medie.

Per porre un freno a questo infame tradimento della patria che pregiudica notevolmente l’attività delle operazioni, favorirà di prendere quali ostaggi cinque abitanti di sesso maschile, noti per i loro sentimenti italiani (possibilmente persone benevise nei circoli municipali) e di consegnarli al comando della 58a divisione di fanteria.

Favorirà inoltre di notificare un tanto agli abitanti medianti pubblici avvisi aggiungendo che rinnovandosi le menzionate segnalazioni e il taglio dei fili telefonici, alcuni degli ostaggi saranno massacrati (niedergemacht), ed al loro posto presi degli altri, ciò che si ripeterà ogni qualvolta avverranno di simili atti di alto tradimento. […]

Noi eravamo cinque delle dodici persone proposte dal Consigliere Rebek.

(Giuseppe Bramo. Internati, in Per il monumento ai caduti goriziani. [9 agosto 1916-9 agosto 1922]. Gorizia, Paternolli, 1922)